mercoledì 28 novembre 2012

Il castello di Monteacuto - Treia

Ruderi da una foto del 1936 scattata da Appio Appignanesi

Voglio dedicare questo post, a questo misterioso maniero che fin da piccolo ha attirato la mia attenzione, dal terrazzo della cucina di casa mia, ogni volta che mi affacciavo scrutavo in lontanza la sagoma del Monte Acuto che si staglia fino ad 820 metri sul livello del mare. Una sagoma che al tramonto ispira la figura di una donna stesa supina dormente. Ebbene sulla cima del Monte Acuto su quello che da casa mia sembra il punto più alto ma in realtà così non è in quanto quota 820 metri si raggiunge dietro all'orizzonte visibile, dicevo su quello che appare come il punto più alto visibile da casa mia, si stagliava un rudere, di forma indefinita. Ovviamente da così distante non era percepibile la forma, ne la grandezza, ma mia madre ed altre persone mi dicevano che si trattava della Roccaccia, il castello della Roccaccia, un rudere dove si nasconde nelle viscere un tesoro custodito da un serpente nero che altro non è che il demonio.
Capite bene come la mente di un bambino rimanga al contempo affascinata ed intimorita da questi racconti, da un lato tanta curiosità, dall'altro timore per quella figura indefinita che si vede in lontananza lassù sulla cima della montagna, del resto il toponimo Roccaccia è un qualcosa di dispregiativo che nulla di buono lasciava presagire.
La mia mente ha sempre fantasticato su questo maniero, su come poteva essere e come poteva essere stato nei secoli addietro. Tutto questo finchè il parroco del paese, Don Giovanni non organizzò un escursione a piedi dalla mia frazione "Grottaccia" fino alla Roccaccia, sembra una cacofonia, o un gioco di parole, ma l'assonanza c'è tutta, due luoghi vicini e lontani nello stesso tempo,due toponimi simili, due dispregiativi, due nomi affatto antichi come qualcuno potrebbe pensare, ma nomi affibbiati in epoca relativamente recente. In realtà la frazione di Grottaccia, ha assunto questo toponimo solo in epoca recente, agli inizi del 900, in quanto prima la zona era definita o meglio prendeva il nome dalla chiesetta di San Sergio, infatti il pianoro che si estende verso Ovest nelle carte napoleoniche prendeva il nome di Piana di San Sergio, mentre la parte a Nord Ovest andava sotto il nome di Case Lunghe, mentre la parte est veniva chiamata Pergola da un lato e Pian della Castagna dall'altro. La Roccaccia invece era denominata in antico Monte Acuto.
Andammo a piedi fino ai ruderi della Roccaccia, fu una gran bella giornata, camminammo tutto il giorno e rientrammo a casa nel tardo pomeriggio. Finalmente coronai il mio sogno, arrivai tra le rovine di quell'antico maniero, lo vidi da vicino, ci entrai, toccai con mano le pietre, ammirai il panorama che si godeva da lassù e riconobbi in lontananza la mia frazione ed anche casa mia piccola piccola, ecco è così che il castello mi vedeva da lassù ogni mattino, ogni giorno, ogni tramonto. Per secoli aveva vigilato sulla valle, sulla pianura marchigiana, chissà quanti uomini sono passati in quel luogo, quante battaglie, quante guerre, quali e quante storie quelle mura antiche possono raccontare.
Da quel giorno quella Rocca cadente è entrata ancor più nella mia mente, mi chiedevo chissà dove sono i documenti, le storie vissute, chissà se conoscerò mai il nome di chi la abitò e la costruì, chissà se conoscerò mai la sua fine, chissà........
Piano piano col passare degli anni, crescendo, la mia passione per l'archeologia è cresciuta, per la storia anche, i destini si incrociano, e piano piano si fanno conoscenze e scoperte che anni prima nemmeno pensavamo di fare e quel maniero misterioso, affascinante, inquietante rimane presente nella mia vita. Arriva il momento di partire per il servizio militare e come spesso facevo d'estate inforco la mia moto da cross, un SWM 50 e salgo fin lassù, spengo la moto e come faccio sempre, mi incammino a piedi, silenzioso, ammiro quei muri e mi domando chissà quanto ancora rimarranno in piedi a testimoniare un passato a me sconosciuto, si ode solo il canto delle cicale sotto il sole cocente, una terra arida, un luogo imponente, ma che d'inverno è battuto dal vento e reso invivibile dalla pioggia, dal freddo e dalla neve, mentre d'estate siccità, calore, e serpenti non lo rendono certo confortevole, chissà come vivevano secoli fa gli uomini in quel luogo inaccessibile. A volte mi sedevo sul ciglio del fossato chiedendomi se lo avessero riempito di acqua e se c'era un ponte levatoio come nei castelli che si vedono nei film, ma nessuno che rispondeva alle mie domande. Un giorno decisi di provare a vedere cosa si celasse sotto la terra intorno al castello e cominciai a scavare con un piccolo zappetto, scavai scavai finchè non apparve una stanza in muratura crollata, una stanza di una serie di ambienti forse sotterranei collegati tra loro da una porta, al suo interno tegole, frammenti di vasellame, qualche elemento in ferro tra cui una fibbia di un sandalo, alcune ossa, pezzi di vetro colorato, dei pesi da telaio metallici, ed un manico di pugnale stile basilarda in ferro tremendamente corroso tanto che oggi ne rimane solo una foto essendo irrecuperabile tanta era la corrosione che lo rendeva irriconoscibile.
Partito militare, sospesi le mie ricerche, terminato il servizio di leva iniziai a lavorare in quel di Treia dove divenni anche Presidente Archeoclub della locale sezione di Treia. Qui iniziai a seguire le vicende del patrimonio culturale locale e tra letante cose anche la storia dell'antico castello. Infatti finalmente scoprii, scritti e pubblicazioni che parlavano della Roccaccia, e finalmente questa Rocca cominciò ad assumere contorni più definiti. Qui tenterò di riassumere la storia per quanto possibile del Castello di Monteacuto altresì detto La Roccaccia.
A circa 740 mt s.l.m., nel comune di San Severino Marche, ai confini con Treia e Cingoli, il Castello di Monteacuto, oggi identificato col toponimo de "La Roccaccia", si pone all'estremità del crinale di una formazione montuosaa a Nord-Est della cima omonima, tra la profonda valle del torrente Rudielle e quella del Rio Torbido.L'intero complesso si trova oggi allo stato di rudere con poche strutture in elevato ancora visibili, numerosi interramenti dovuti ai materiali di crollo ed una sovrapposta vegetazione che negli anni ha saturato il versante Nord - Ovest.
L'analisi architettonica risulterà ovviamente lacunosa per la citata situazione di degrado, per l'assenza di rilievi metrici diretti e per l'esiguità del materiale cartografico e documentario; a tal proposito è doveroso ricordare che nel 1876  il Servanzi Collio affermava di essere in possesso di piante e prospetti dei ruderi, documentazione questa, al momento irreperibile.

Le strutture murarie ricalcano l'orientamento del crinale e la composizione risulta caratterizzata da uno schema ortogonale tranne nell'estremità Nord-Est dove compaiono strutture poligonali diversamente orientate. All'estremo opposto si collocano le strutture in "migliore" stato di conservazione: una torre ed i resti di una muratura angolare in prossimità di un profondo fossato che rappresenta il limite del castello verso questo lato.
fossato visto di lato

Il fossato, scavato nella viva roccia: un calcare bianco utilizzato anche per la costruzione, presenta pareti di notevole altezza ed è in parte occupato da materiale di crollo.
La torre è la struttura in elevato di maggiore interesse tra quelle superstiti, ha pianta quadrangolare, con murature di notevole spessore costituite esternamente da grossi conci di calcare squadrato e da un conglomerato di pietrame più minuto ed irregolare all'interno.
la torre principale da una foto del 1936 (Appignanesi Appio)

Sono attualmente individuabili due livelli interni, separati da una volta a botte di cui rimane una evidente traccia sulle murature interne; il passaggio di piano è rimarcato anche dal rastremarsi della muratura, che come è tipico in queste strutture, si va alleggerendo con l'aumentare dei livelli. Viste le esigue dimensioni ad ogni piano corrispondeva un unico vano, collegato verticalmente agli altri mediante botole ricavate nei solai e scale in legno.
feritoia all'interno della torre principale

In entrambi i livelli si apre si apre una feritoia sul lato rivolto a Sud-Est, quella inferiore presenta all'esterno un'accurata soluzione formale ottenuta mediante lo smusso a 45 gradi degli angoli nei due conci verticali ed in quello sommitale. Le feritoie sono disposte su due diversi livelli di tiro: la prima, poco sopra l'attuale piano di calpestio, era predisposta per il tiro con l'arco (quindi arciera). L'altra, superiore di alcuni metri, spostata a sinistra rispetto all'asse di quella inferiore è stata adattata (presumibilmente nel trecento) per il tiro con l'archibugio.

particolare della feritoia

Non è rimasta traccia dell'ingresso, se non lo spigolo SE sul punto di crollare anche questo, privo del paramento in conci squadrati, probabilmente posizionato ad un livello superiore delle attuali murature, nè di altre aperture verso l'esterno ed in particolare verso il fossato, c'è da notare infatti che le due uniche feritoie si affacciano all'interno di un quadrilatero di alte mura, di cui la torre occupa un angolo.

a sinistra la torre principale

L'altra importante muratura è infatti un residuo angolare di questa struttura originariamente connessa alla torre, fatto, questo, denunciato dal degrado dello spigolo della torre al di sotto dell'altezza della muratura d'angolo, corrispondente all'incirca al livello della seconda feritoia.
seconda struttura

Il degrado è assoluto e irreversibile. E' una struttura destinata a scomparire davanti all'incedere del tempo ed all'incuria. Una ventina di anni fà alcuni scout rinvennero nelle vicinanze della Roccaccia un elmo arrugginito (o ritenuto tale). Si pensò ad un elmo di un soldato che presidiava La Roccaccia, ma ad una analisi dell'oplologo Mauro autore dell'Emciclopedia dei Castelli, molti dubbi sono stati sollevati, suggerendo più un elmo forse di un paracadutista tedesco della II Guerra Mondiale.

Ricostruzione planimetria a cura dell'Arch. G. Trivellini

Ricostruzione planimetria a cura dell'Arch. G. Trivellini
Sull'origine di questo castello oggi chiamato con disprezzo "La Roccaccia" poco o nulla sappiamo se non che esso probabilmente sorse sulla scia del grande esodo causato dalle invasioni barbariche nel Piceno, fuga che portò gradualmente le principali città romane della zona a spopolarsi in favore di luoghi più sicuri e facilmente difendibili come le vicine montagne. Sicuramente la sua fortificazione ed erezione a castro vero e proprio ebbe consacrazione durante la guerra fra bizantini e longobardi essendo quei luoghi fortemente interessati dal corridoio bizantino.

La valle del Rio Lacque che il castello ancora sovrasta, quasi a guardia dell'ingresso di questa sorta di Gran Canyon, era già dal tempo dei popoli italici importante via di comunicazione, una scorciatoia che da Ancona per Auximum (Osimo) portava a Septempeda (San Severino Marche). L'importanza di questa via  durante la guerra greco-gotica aumentò considerevolmente come è testimoniato dai fortilizi medievali presenti lungo di essa, la maggior parte dei quali oggi scomparsi (Monte Acuto, Castellano, Lavenano, Civitella, Serralta, San Lorenzo, Aliforni etc). La toponomastica in tal senso ci dà ulteriore conferma, infatti lungo questa valle troviamo una messe di attestazioni che confermano sia la presenza bizantina che quella longobarda (chiesa di Sant'Apollinare a Monte, di San Sergio, di San Michele Arcangelo).
Chiesetta di S. Apollinare a Monte

La Rocca di Monte Acuto quindi fu fin dall'inizio un fortilizio a difesa e controllo dell'imbocco della cosiddetta Valle del Rio Lacque, quell'arteria cioè che, partendo da Grottaccia, si insinua fra i monti costeggiando il torrente Rio Lacque in direzione San Severino Marche; tale funzione fu mantenuta anche dopo la guerra goto-bizantina, fino a diventare autentico baluardo di confine tra i comuni di San Severino Marche, Montecchio (oggi Treia) e Cingoli. Le notizie più antiche le troviamo nello Statuto di Cingoli del 1325. Da una pergamena conservata nell'archivio dell'Accademia Georgica, dell'8 febbraio 1157, apprendiamo della vendita del Castello di Monteacuto ai Consoli di Montecchio da parte di Albrico e dei suoi nipoti. Nel dicembre del 1191, Anselmo di Matteo, che nel frattempo ne era divenuto il proprietario, restituì ai Consoli di Montecchio il castello. Nel 1254 il Comune di Montecchio acquistò da Domenico di Albrico e dai suoi nipoti la selva situata intorno al castello di San Lorenzo ed il territorio "Montanae Montis Acuti posit in curia districtus Castri Monticuli".

Nelle riformanze di Treia del 1457 si dice che al castello erano annessi due monasteri femminili presso cui si ricoveravano malati di ambo i sessi che non potevano essere curati all'interno della città. Oggi di detti Monasteri rimane solo una chiesetta alle falde del Monte Acuto detta Santa Maria dell'Ospedale.
Lato posteriore chiesetta Santa Maria dell'Ospedale

Lato nord/ovest chiesetta Santa Maria dell'Ospedale

Numerose sono le leggende che aleggiano su questo Castello o Rocca, come la tessitrice misteriosa che tesse nei sotterranei del castello con un telaio d'oro, oppure della gallina dalle uova d'oro, o del serpente (messo dal demonio) a guardia del tesoro nascosto nelle segrete del castello. Una probabile motivazione a tante fantasticherie spesso legate alla presenza demoniaca, la si potrebbe ricercare nel fatto che il Signore del Castello, tale Grimaldo di Aureliano, fu uno dei più irriducibili e potenti avversari di Montecchio, un vero e proprio Signore della guerra, al punto che mise per anni a ferro e fuoco il territorio del contado montecchiese, a capo di una vera e propria banda armata. Di notte usciva dal maniero, scendendo verso la valle del fiume Potenza attraversando con i suoi mercenari le campagne circostanti, razziando cascine, mulini fortificati, incendiando, passando a fil di spada chiunque gli si opponesse, sequestrando donne e uomini che rinchiudeva nelle stanze del maniero finchè la comunitànon pagava adeguato riscatto, e nonostante ciò non sempre i poveretti uscivano vivi dalla prigionia come attestato in una pergamena del 1191 conservata nell'accademia Georgica di Treia che più avanti riporterò tradotta, una querela fatta dai Consoli di Montecchio all'allora rettore della Marca Gottibaldo contro Grimaldo di Aureliano e suo nipote, accusati di scorrerie e brutalità di ogni genere a capo di una compagnia militarmente organizzata.........."Collectis militibus, peditibus et sagittariis"..... la quale precedeva una successiva gerarchia inferiore oltre a Grimaldo e nipoti.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, questo ribaldo non fu imprigionato e fatto marcire nelle segrete di Montecchio, ma anzi, col tempo, finì anch'egli per incastellarsi in Montecchio arrivando perfino a ricoprire cariche pubbliche.
Il toponimo dispregiativo "La Roccaccia", che certamente ha origine più recente rispetto al castello, è sicuramente attribuibile a due motivi principali, primo dei quali l'inospitalità del luogo arido e assolato d'estate, e gelido, ventoso, umido d'inverno, difficile da raggiungere ed espugnare, ed in secondo luogo per l'alone di mistero e terrore che ha sempre infuso nelle popolazioni antiche per i motivi anzidetti.
Nulla sappiamo purtroppo sulla fine del castello che certamente non fu affatto una torre faro come qualcuno avrebbe voluto sostenere, ma più approfondite ricerche potrebbero riservare ancora qualche sorpresa.

Pergamena del 1191 (querela fatta al Rettore della Marca)

In nomine Patris, & Filii, & Spiritus Sancti Amen. Ego Ugolinus, Moricus, Albricus, Circo Consules Monticuli nomine nostrae Communitatis conquerimur Deo, & vobis D. Gorobaldo Dei gratia Marchioni Anconitano de Grimaldo, & de nepote, qui vi, & armata manu arcem Montis Acuti, & totum castrum invaserunt, & custodes nostros inde dejecerunt, & valentia M Librarum Lucens, inde abstulerunt, qui licet nobis possessionem arcae restituissent, penam tamen invasionis perimus, & penam rerum ablatarum, quae estimatae funt in M libras .... cum estimatione, & cum possessionem aberemus. Alia vice nobis deastulerunt arcam, & castrum, & custodes nostros iterum defecerunt, & quosdam fortit. vulneraverunt, & res quasd. valentes C libras Lucens. inde astulerunt, cujus arcis restitutio antequam agatur, de proprietate petimus restitutionem, & rerum ablatarum petimus penam quatruplici cum estimatione earundem. Item conquerimur adversus eos quod equitaverunt in villis nostris, & boves, & asinos, & pecodes, & jumenta, & alia animalia rapuerunt, & tres homines ceperunt quorum unum vincolis interimerunt, alios duos nullatenus dimiserunt, nisi quando pecunia sua se redimerit, quam pecuniam ...... reperimus. Eadem die iterum equitaverunt similiter in villis nostris, & tres homines vulneraverunt, quorum unum interfecerunt, duos alios semivivos reliquerunt, & tria molendina combusserunt. Alia vice in villis nostris equitaverunt, & cassinos nobis cum omnibus supellectilibus & masseritiis in praedictis domibus combusserunt, & homines, & equos fortiter vulneraverunt. Item alia vice noviter equitaverunt & unum hominem vulneraverunt, & XX cassinas cum masseritiis, & alia vice domos nobis combusserunt cum massaritiis in villa Collis. Item alia vice equitaverunt in ead. villa, & XX domos nobis combusserunt cum massaritiis, & alia vice in Villa Antiqui X cassinas nobis combusserunt, & duabus vicibus in Villa S Jervasii XXXX cassinas cum massaritiis nobis combusserunt, & alia vice in Villa Luciliani destruxerunt XXXX domos, & quasdam combusserunt, & quasdam ...... ceperunt, & alia vice in Villa Vallis XX cassinas combusserunt cum massaritiis, & fere omnes vineas, & arbores ejusdem nostrae villae videlicet Luciliani, vallis intercedere, & incidi fecerunt cum propriis arboribus quedam portari ceperunt. Preterea militibus, & peditibus collectis impetum in quoddam nostrum castrum fecerunt videlicet Vallis Campane, & illud acriter expugnaverunt, & hominem ibi fortiter vulneraverunt, & sagittas, & lapides intra projicerunt, & quandam portam Castri fregerunt. Item collectis militibus, & peditibus in Villa Mollis equitaverunt, & quosdam campos devastaverunt plenos grano, ordeo, & fabe, & lino, & portari fecerunt. Item ceperunt quendam nostrum Castellanum, & in vinculis eum detinuerunt. Preterea una die collectis C militibus, peditibus, & sagittariis nobis equitaverunt, & duo ....... astulerunt. Et alia vice in villa S Damiani equitaverunt, & unam vaccam astulerunt, & quemdam nostrum Castellanum cum sagitta acriter vulneraverunt. Et alia vice in planum Aquevive nobis equitaverunt, & IIII boves astulerunt, & hominem quendam nostrum vulneraverunt. Item abstulerunt nobis unam vaccam in Villa S. Damiani, & alia vice interfecerunt nobis unam asinam ad allolmeta, & clamidem, & ensem Domino asinae abstulerunt. Idem duabus vicibus iverunt ad molendina in Potentia posita, & ibi mulieres quasdam ceperunt, & eas victas fecum usque ad castrum S. Laurentii oneratas duxerunt farina, & eas denudatas......... & molendina fregere, & alia vice fregere macinas, & frangere fecerunt, & frammenta portari fecerunt, & quendam nostrum militem alia vice in strata publica ceperunt, & acriter eum vulneraverunt, & equum, & arma, & vestes astulerunt, & vinctum eum duxerunt, & tandiu in vinculis eum detinuerunt donech XXXII libras lucens. ab eo extraxerunt, & alia vice ceperunt Ambrosinum, & asinam, & vestes astulerunt, & tandiu eum in vinculis detinuerunt donech ab VIIII Libras extraxerunt. Etiam alia vice ceperunt filium Juvenaccionis Gisii, & fratrem ejus & vestem, & ensem astulerunt, & tandiu eos in vinculis detinuerunt donec VIII Libras Lucens. extraxerunt ab eis. Quendam alium nostrum Castellanum ceperunt, & tandiu eum in vinculis detinuerunt donech ab eo XXV Sol. Lucens. extraxerunt. Preterea in predictis locis CC palearia comburi fecerunt, & alia vice nobis equitaverunt in Plano Aquevivae, & predicta abstulerunt valentia fere ultra C libras lucens. Item in Castro domos quasdam comburi fecerunt cum mobilibus, & immobilibus, & semoventibus C libras lucens. valent. Preterea ...... factu devastaverunt, & devastare fecerunt quam, plures vineas, & arbores, & seictes portaverunt, & .........nostro Castellano ..... duos saumas ordei abstulerunt &c.”
Traduzione a cura di Luca Pernici

Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, Amen.
Io Ugolino, Morico, Albrico, Circo, consoli di Montecchio, a nome della nostra Comunità, ci lamentiamo con Dio e con Voi, Gorobaldo, per Grazia di Dio rettore della Marchia Anconetana, di Grimaldo e del nipote di questi, i quali con la forza e con mano armata hanno invaso la rocca di Monte Acuto, scacciandone i nostri custodi e ricavandone un lucente bottino di mille Libre; 
chiediamo dunque la restituzione da parte di essi della rocca e delle nostre proprietà, e per quanto distrutto e rapinato pretendiamo un risarcimento pari a quattro volte.
Inoltre ci lamentiamo contro essi per le rapine che fecero una volta, cavalcando per i nostri villaggi, di buoi, asini, ovini, giumenti e altri animali; e ancora, in altra occasione, per il rapimento di tre uomini, dei quali uno lasciarono morire in catene, mentre gli atri lasciarono andare solo dietro compenso in denaro, che noi procurammo; e ancora, tornando a cavalcare nelle nostre valli, per l’uccisione di un uomo e il ferimento grave di altri due, nonché per l’incendio di tre mulini; e ancora, ulteriormente, per l’aver dato alle fiamme alcuni nostri casini con tutte le suppellettili e masserizie, ferendo gravemente uomini e cavalli;e di nuovo, in altra scorreria a cavallo, per aver bruciato ben una ventina di casini e una nostra dimora nella Villa del Colle; e quindi, in una successiva occassione, per aver dato alle fiamme nella medesima Villa del Colle altri casini, e dieci casini nella Villa Antica, e ben quaranta, con relative masserizie, in Villa S.Gervasio, e per la distruzione di altrettante abitazioni in Villa Luciliano; di nuovo, quindi, per l’incendio di venti casini nella Villa della Valle e per la distruzione di tutte le nostre vigne e alboreti nella villa di Luciliano; ancora per aver, con cavalieri e soldati, assaltato un nostro castello nella valle di Campana, con violenza espugnandolo, abbattendone la porta e ferendo con frecce e getti di pietre i custodi e gli abitanti; parimenti, con una milizia di cavalieri e soldati, per aver devastato campi pieni di grano, di orzo, di fava e di lino nella Villa di Moie; e per aver rapito un nostro castellano, relegandolo in catene; e, ancora, per le incursioni e le rapine di cose e animali e il ferimento e l’uccisione di uomini nella Villa di S.Damiano; così pure per la razzia di quattro bovi nella piana di Acquaviva; e, ancora, per l’avere, in un molino presso l’abitato di Potenza, rapito alcune donne che, legate e denudate, portarono come merci, insieme ai sacchi di farina, al castello di S.Lorenzo; e quindi per aver rapito il filgio di Giovenaccione di Gisio e il di lui fratello a lungo tenendoli in catene fino a che estolsero loro ben 8 libre lucenti; e così ancora per le innumerevoli razzie e devastazioni e uccisioni ecc… che fecero nelle nostre terre.

Nella metà degli anni 80 fu rinvenuto un manufatto in ferro, molto corroso, ormai irriconoscibile, a prima vista sembrava una maniglia di una porta, ma non convinceva del tutto, alla sua estremità inferiore aveva due minuscole alette, alla sua estremità superiore aveva altre due alette più grandi. Al centro delle due alette più piccole, aveva un forellino così come al centro delle due alette più grandi. Inoltre uno dei due lati era concavo. Molto corroso comunque l'oggetto ad un profano era di difficile identificazione. Era stato rinvenuto tra le pietre di crollo di una delle stanze ad est del mastio. Mostrato l'oggetto all'Avv. Mauro autore dell'enciclopedia dei castelli nella quale io avevo curato la parte storica proprio della scheda relativa al Castello di Monte Acuto, egli non ebbe esitazione a dire che l'oggetto altro non era che il manico di un "baselardo". 
L'oggetto era identico a questo senza lama però

esempi di baselardo
Il baselardo è un arma bianca corta, daga con impugnatura a forma di doppio T. Due bracci sono presenti tanto all'elso che al pomo e il loro andamento è il più vario: in Italia compaiono generalmente diritti ed eguali. La lama si presenta a due  fili e punta, irrobustita da costolatura centrale. Il termine "basillarde" o "baselarde",o "basilarde" è contemporaneo alla comparsa dell'arma. Il termine si suppone derivi dalla città di Basilea. L'arco temporale di diffusione di questa arma è da collocare dal 1300 al 1500 circa. Chissà il nostro coltellaccio chiamiamolo così per rimanere nei termini dispregiativi di cui è piena la Roccaccia, a chi è appartenuto, forse a quel manigoldo di Grimaldo? O forse ad uno dei suoi mercenari? O invece a suo nonno Gezeramo? Difficile da dirsi e alquanto improbabile visto che Grimaldo di Aureliano nipote di Gezeramo visse intorno alla fine del 1100 epoca in cui forse il basilardo ancora non esisteva. Di certo il fatto che l'impugnatura del basilardo fosse da un lato concava sta ad indicare che essa avesse l'anima in altro materiale. L'Avv Mauro disse che nei casi di armi appartenenti a signorotti essa aveva l'anima in avorio, mentre nei casi di soldataglie, l'anima era in osso o in legno, materiale organico più facilmente deperibile.
Anche vari frammenti di cocci furono raccolti mischiati ai conci di crollo, ed alcuni rimessi insieme fino a formare l'antico vaso medievale molto rozzo possiamo dire. Vaso la cui datazione non era certo facile, e la cui forma era molto spartana


Il presente post è in continuo aggiornamento.....................